27 luglio 2018

“Misurare per centrare l’obiettivo. Dei ragazzi e dell’azienda”

Non un percorso “frontale” ma un vero e proprio laboratorio esperienziale che vuole colmare una lacuna esistente nei percorsi formativi scolastici. Per creare consapevolezza e favorire il ragionamento. Così Marisa Parmigiani, Sustainability manager del Gruppo Unipol, racconta il progetto EOS “I Casi della Vita”, facendo un bilancio dei primi tre anni e commentando i risultati del test svolto dai ragazzi alla fine del percorso. “Misuriamo i risultati degli studenti – dice Parmigiani – perché un progetto deve dimostrarsi impattante: in un contesto scolastico ormai sovrasollecitato non si può far perdere tempo ai giovani. E allo stesso tempo per un’azienda è fondamentale uscire dalla logica del marketing sociale”.


Il progetto EOS “I casi della Vita” è giunto al suo terzo anno, quale bilancio a questo punto del percorso?

Il progetto è sicuramente entrato in una fase di maturità, con ottimi risultati in termini di riconoscibilità e di interesse. La scelta di introdurre la possibilità di utilizzarlo nel percorso di Alternanza scuola-lavoro, ci porta a ridurre il numero dei ragazzi coinvolti, ma migliora efficacia e coinvolgimento perché rende l’impegno dei ragazzi più continuativo e quindi pervasivo nel percorso scolastico. È migliorata molto la capacità degli studenti di affrontare il ragionamento sui business case, sui rischi potenziali in cui incorre l’impresa e sulle capacità che ha quest’ultima per proteggersi.

Perché è importante lavorare su questi temi fin dalle scuole superiori?

La consapevolezza e la conoscenza del “rischio imprenditoriale” sono un tema in Italia particolarmente importante visto la forte diffusione di Pmi e di lavoratori individuali: soprattutto in un momento economico difficile come quello attuale diventa fondamentale diffondere la cultura della protezione al rischio. Molti dei ragazzi che abbiamo incontrato potrebbero un domani essere imprenditori di loro stessi. Pensiamo che questa iniziativa abbia un valore importante nell’aiutarli a diventare domani protagonisti del loro sviluppo e, insieme, dello sviluppo economico della comunità in cui operano.

Il progetto fornisce competenze aggiuntive e complementari a quelle dei percorsi scolastici?

Sì, offre un’alfabetizzazione di base che non è presente in nessun ciclo scolastico, neanche negli istituti tecnici professionali. Su questi aspetti legati al rischio e alla sua gestione assistiamo a un vulnus delle conoscenze che diamo ai ragazzi di oggi a livello scolastico, sia da un punto di vista di competenze operative sia gestionali. Ecco perché, giunti al terzo anno, è un progetto che il Gruppo Unipol conferma con forza, tra l’altro in una fase storica in cui sempre di più la sostenibilità a livello assicurativo si basa sulla creazione di valore condiviso attraverso la condivisione di consapevolezza sui rischi e sulla prevenzione. In altri termini, l’assicurazione di domani dovrà lavorare sulla consapevolezza dei rischi e sulla prevenzione prima ancora che sulla protezione del rischio. Unipol EOS non è quindi un progetto occasionale ma strategico. Con un valore aggiunto distintivo rispetto anche ad altri progetti di educazione all’imprenditorialità che oggi sono spesso più focalizzati ad insegnare ai ragazzi a costruire un business plan e a verificare se l’idea imprenditoriale ha le caratteristiche per andare sul mercato, piuttosto che insegnare a considerare i rischi che si corrono nella sua implementazione. Eppure spesso è proprio confrontandosi con questi rischi che le start up non sopravvivono su un orizzonte temporale di medio lungo periodo.

Si è scelto di affidare le lezioni a dei formatori professionisti esterni con moduli interattivi e percorsi di gruppo nell’elaborazione di veri e propri progetti. Perché?

La nostra è stata una scelta precisa di non implementare un corso tradizionale di tipo “frontale” ma di introdurre i ragazzi a momenti di apprendimento corali guidati da formatori esperti in questa tipologia di dinamiche. Questo perché il nostro obiettivo è costruire prima di tutto consapevolezza, non fare alfabetizzazione didascalica. Se quest’ultima è certamente importante, il rischio di questo approccio, data la tematica e la giovane età dei ragazzi, è fornire semplicemente un vocabolario di termini e concetti che dopo un mese viene accantonato e dimenticato. Al contrario, creare consapevolezza significa lavorare alla base, sulla presa di coscienza dell’importanza e dell’utilità di questi temi.Ecco perché abbiamo scelto di adottare percorsi esperienziali con formatori esperti di dinamiche di gruppo e processi di apprendimento, e non di assicurazione. Non è un caso che i risultati migliori del test di impatto condotto a fine corso riguardano le tematiche veicolate attraverso l’apprendimento esperienziale, mentre risultati scarsi si sono ottenuti sul fronte della terminologia.

Il progetto si caratterizza proprio per sottoporre i ragazzi a un test pre percorso e a un test finale successivo al lavoro svolto. Qual è la rilevanza di questo passaggio?

Il test è un momento fondamentale. Si parla diffusamente di efficacia di impatto dei percorsi formativi ma poi nella realtà raramente si va a misurare quanto questi percorsi hanno spostato, hanno accresciuto, la consapevolezza e la percezione legata al comportamento. In una scuola sovrasollecitata da percorsi di formazione, è più che mai fondamentale che questi siano utili ed efficaci: bisogna evitare di far perdere tempo ai ragazzi. Anche per questo abbiamo scelto di misurarne l’impatto. Inoltre, il test è uno strumento di verifica non solo per loro ma anche del progetto. Se un progetto non si dimostra impattante vuol dire che non va bene e va ripensato. Inoltre, credo sia corretto che se un’azienda investe risorse debba anche domandarsi l’utilità che produce questa attività, per uscire dalla logica del buonismo e del marketing sociale che non hanno nulla a vedere con l’impatto reale sulla comunità.

Quali i risultati emersi dal test?

Il test evidenzia come cresca molto la consapevolezza sui rischi specifici del nostro decennio, come sia molto efficace la parte di creazione di consapevolezza sul rischio, mentre meno la parte di alfabetizzazione finanziaria, risultato peraltro coerente con quanto ci aspettavamo. Questo comunque non ci esonera dal puntare a trasferire ai ragazzi quanta più conoscenza riusciamo, anche perché non possiamo ignorare come alcune figure professionali abbiano l’urgenza di imparare questa terminologia più di altre. Pensiamo per esempio a un idraulico che deve saper leggere un contratto assicurativo. La difficoltà ulteriore è anche che le nuove generazioni non sono abituate all’apprendimento mnemonico.

Quali i risultati che l’hanno maggiormente colpita?

Sebbene risulti debole il riscontro in termini di spostamento verso una maggiore attitudine assicurativa, su cui c’è sicuramente da lavorare, i dati mostrano una buona reattività da parte dei giovani. Quando si parla di attitudine assicurativa, entriamo infatti in un campo che presenta dati molto bassi per il Paese in generale, anche quando ci si riferisce agli adulti. Colpiscono quindi i risultati del test sulla presa di consapevolezza del passaggio dal pubblico al privato nella gestione dei rischi in generale, del welfare e delle pensioni in particolare, il suo riconoscimento e la relativa maggiore responsabilizzazione rispetto a una fase di risarcimento. Tutti dati molto distonici rispetto al resto del Paese. In altri termini, vediamo crescere questa consapevolezza nei giovani più di quanto succeda nella popolazione media.

Perché questo dato colpisce particolarmente?

Perché nel percorso di Unipol EOS non sono previsti particolari esercizi sul processo di dewelfarizzazione in atto. Eppure i giovani lo colgono in autonomia. La semplice creazione di awareness, ossia consapevolezza, sui concetti di rischio e mutualità porta i giovani a ragionare sulle dinamiche del loro tempo anche se non ci sono laboratori specifici ad esse dedicate.